E proprio sulla soglia della luce

Il mito di Orfeo ed Euridice e una sua possibile lettura attraverso i personaggi di Dante e Beatrice

Dispiegamento: non saprei trovare parola migliore di questa per descrivere ciò che accade al mito di Orfeo ed Euridice attraverso la vicenda di Dante e Beatrice. Il dramma iniziale, pur con sottili differenze, è in effetti il medesimo. Una giovane donna muore e il suo giovane amato e amante è disposto a scendere all’inferno pur di salvarla. Certo, la missione di Dante è decisamente più complessa ma, una volta lì, va notato che ciò che gli accade è esattamente l’opposto di quanto avviene nella vicenda orfica: è Beatrice infatti che scende dal cielo all’inferno per trarlo in salvo, lì dove invece Euridice viene soccorsa dal cantore tracio, suo sposo.

Virgilio infatti viene mandato a Dante proprio per intervento di Beatrice:

“Io era tra coloro che son sospesi [1]

e donna mi chiamò beata e bella,

tal che di comandare io la richiesi”

(Inf. II 52-54).

Cosa bisogna dire dunque? Che nell’opera maestra di Dante il fallimento di Orfeo trova una soluzione? 

In realtà, la questione è più complessa di così e merita qualche approfondimento.

Orfeo et Euridice - Savall

Immagine di un’esecuzione de L’Orfeo, favola in musica di Claudio Monteverdi

Orfeo perde Euridice nel momento in cui, dopo la risalita dagli inferi, si volta per guardarla, giusto prima del loro ritorno al mondo della luce solare e della realtà fisica. Questo è il luogo, questo è il momento della scissione: l’incrocio tra visibile e invisibile, tra morteamore. Orfeo nel voltarsi s’illude infatti di aver già superato e sconfitto la morte e pertanto per prima cosa si focalizza sulla figura dell’amata. Il monito e l’interdizione degli dèi del mondo infero sono però inflessibili e gli vietano di fissarla prima che la soglia dell’ombra sia stata completamente varcata da entrambi.

Edward Poynter - Orpheus and Eurydice (1862)

Orfeo ed Euridice, Edward Poynter (1862)

Ovviamente, affinché tale soglia sia superata è indispensabile l’Amore per quanto, paradossalmente, è proprio lo stesso Amore che impedisce ad Orfeo di portare a termine la sua missione.

Le laminette orfiche di cui siamo a conoscenza insistono sulla purezza interiore e sullo slancio verso un’ulteriore purezza oltremondana: l’amore coniugale di per se stesso non è evidentemente bastevole a decretare una salvezza imperitura dunque, né secondo il mito né per coloro che ad esso si ispiravano. Il mito del cantore tracio e della sua ninfa è in realtà una pietra dall’intaglio semplice, a suo modo simmetrico, ma che ad ogni luce offre riflessi inesauribili: Leggiamo qui la versione di Virgilio per soffermarci su alcuni dei suoi tratti più significativi.

(A parlare qui di seguito è il dio marino Proteo, a cui Aristeo si è rivolto per capire le ragioni dell’epidemia che ha ucciso le sue api: si tratta del castigo inflittogli dagli dèi per la tentata violenza su Euridice e la morte della fanciulla).

«È vero, ti travagliano le ire di un nume; paghi

una grande colpa. Ti suscita questa punizione,

se i fati non si oppongono, Orfeo, ingiustamente sfortunato,

e duramente infierisce a causa della sua sposa rapita.

Quella, mentre ti fuggiva trafelata lungo il fiume,

non vide, fanciulla moritura, seguendo il greto,

nell’erba alta davanti ai suoi piedi un orribile serpente.

La schiera delle Driadi, sue coetanee, riempirono di grida

le cime dei monti; piansero le rocche del Rodope

e l’alto Pangeo e la marzia terra di Reso

e i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia. Egli, Orfeo,

cercando di consolare con la cava testuggine il suo amore disperato,

cantava a se stesso di te, dolce sposa, di te

sul lido deserto, di te all’alba, di te al tramonto.

Entrò persino nelle gole tenarie, profonda porta

di Dite, e nel bosco caliginoso di tetra paura,

e discese ai Mani, e al tremendo re ed ai cuori

incapaci di essere addolciti da preghiere umane.

Colpite dal canto, dalle profonde sedi dell’Erebo,

venivano tenui ombre e parvenze private della luce,

quante sono le migliaia di uccelli che si celano tra le foglie,

quando Vespro o la pioggia invernale li caccia dalle montagne,

madri e uomini, e corpi privi di vita

di magnanimi eroi, fanciulli e giovinette ignare di connubio,

giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei genitori:

li imprigiona intorno la nera melma e l’orrido canneto

di Cocito, e l’infausta palude dall’onda morta,

e li serra la Stige aggirandoli nove volte.

S’incantarono persino le dimore e i tartarei recessi della Morte,

e le Eumenidi con i capelli intrecciati di livide serpi,

e Cerbero tenne le tre bocche spalancate, e la ruota

su cui gira Issione si fermò con il vento.

E già ritraendo i passi era sfuggito a tutti i pericoli,

e la resa Euridice giungeva alle aure superne, seguendolo

alle spalle (Proserpina aveva posto una tale condizione),

quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante,

perdonabile invero, se i Mani sapessero perdonare: si fermò,

e proprio sulla soglia della luce, ahi immemore, vinto

nell’animo, si volse a guardare la sua diletta Euridice.

Tutta la fatica dispersa, e infranti i patti del crudele tiranno,

tre volte si udì un fragore dagli stagni dell’Averno.

Ed ella: «Chi ha perduto me, sventurata, e te, Orfeo?

Quale grande follia? Ecco i crudeli fati

mi richiamano indietro e il sonno mi chiude gli occhi vacillanti.

Ora addio. Vado circondata da un’immensa notte,

tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani».

Disse e subito sparve, via dagli occhi,

come tenue fumo misto ai venti,

né più lo vide che invano cercava di afferrare l’ombra

e molto voleva dire; né il nocchiero dell’Orco permise

che egli attraversasse di nuovo l’ostacolo della palude.

Che fare? E dove andare, perduta due volte la sposa?

Con quale pianto commuovere i Mani, quali numi invocare?

Ella certo navigava ormai fredda sulla barca stigia.

Raccontano che per sette mesi continui egli pianse,

solo con se stesso sotto un’aerea rupe presso l’onda

dello Strimone deserto, e narrava la sua storia nei gelidi antri,

addolcendo le tigri e facendo muovere le querce con il canto:

come all’ombra di un pioppo un afflitto usignolo

lamenta i piccoli perduti, che un crudele aratore

spiandoli sottrasse implumi dal nido: piange

nella notte e immobile su un ramo rinnova il canto,

e per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti.

Nessun amore o nessun connubio piegò l’animo di Orfeo.

Percorreva solitario i ghiacci iperborei e il nevoso Tanai,

e le lande non mai prive delle brine rifee,

gemendo la rapita Euridice e l’inutile dono di Dite.

Spregiate dalla sua fedeltà le donne dei Ciconi,

fra i riti divini e notturne orge di Bacco,

fatto a brani il giovane lo sparsero per i vasti campi.

E ancora mentre l’eagrio Ebro volgeva tra i gorghi

il capo staccato dal collo marmoreo, la voce da sola

con la gelida lingua, “Euridice, ahi sventurata

Euridice”, invocava mentre la vita fuggiva:

Euridice echeggiavano le rive da tutta la corrente del fiume».

(Virgilio, Georgiche, IV 453-527. Traduzione di Luca Canali).

Orfeo incanta gli animali, mosaico d'età romana, Museo Salinas di Palermo

Orfeo incanta gli animali, mosaico d’età romana, Palermo.

” (…) si fermò,

e proprio sulla soglia della luce, ahi immemore, vinto

nell’animo, si volse a guardare la sua diletta Euridice”.

Orfeo è immemore e la sua più grave mancanza è proprio quella di essere tale, seppure per un solo istante. Le divinità sotterranee avevano sancito che egli non dovesse voltarsi prima che entrambi, sposo e sposa, fossero usciti dall’Ade. L’invisibilità, che non tollera i contorni nitidi della visione, comanda e impone la più profonda e pronta delle memorie. Giunto in Paradiso, Dante stesso non potrà fare a meno di ricordarsi proprio di ciò, che il punto d’arresto della memoria è quello che supera ogni definizione: Perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire (Par. I 7-9).

A questo punto si sarebbe tentati di concludere che, semplicemente, la conoscenza e la sapienza di Dante sono di ordine più elevato rispetto a quelle di Orfeo; ma il mito orfico non si caratterizza forse più per le sue allusioni che non per quanto ci narra esplicitamente? In questo senso, il mito sembra essersi tramandato più per ragioni intellettuali che non morali. Le fragili armonie della Euridike – la Grande Giustizia, in greco – con la sua attraente e mortale finitezza, non potrebbero rimandare esattamente al suo opposto, alla misteriosa Giustizia che sottilmente lega il mondo visibile a quello invisibile? Forse, proprio perché istruito su questo sottile legame, Orfeo possiede un linguaggio capace di irretire ed emozionare tutte le sensibilità, persino quelle animali e vegetali, e diviene così capace di attraversare tutte le dimensioni fino a cogliere l’inutilità della sua individualità e ad offrirsi infine al sacrificio.

Il pellegrinaggio poetico di Dante ne è certo una versione più esplicitamente ascetica e, in quanto opera apocalittica, viene anche a rivelare e forse perfino a semplificare le conoscenze più misteriose del passato. Nonostante ciò, il gioco degli incroci e dei rimandi è di una ricchezza e di una profondità sorprendenti: se Euridice svanisce nel mondo dell’oltretomba, Beatrice, ormai immortale, scende ad intercedere per l’Orfeo-Dante smarrito. Un gioco, questo, che si protrae fin in Paradiso, dove la contemplazione della bellezza della Euridice-Beatrice non si traduce affatto nella sua perdita, ma si fonde con il linguaggio dell’ascesi e con i motivi della trasfigurazione.

Roberto Calasso in diverse pagine de Le Nozze di Cadmo e Armonia si troverà a riflettere proprio sulla profondità del mito orfico ma, prendendo spunto in particolare da Platone, sembra lamentare come di esso si sia tramandato più l’aspetto morale che non i suoi significati più profondi. Non a caso definisce gli orfici dei settari e ne dà un’immagine quasi comica; come si legge in questo suo passo di estremo interesse:

“L’aspetto più terrorizzante dell’oltretomba omerico è l’indifferenza, che si manifesta come assenza di punizioni. Perché distinguere meriti e colpe, se lì tutti diventavano uguali nell’inermità, nell’inconsistenza, nel desiderio di bere sangue per ristorare i brandelli di anima che il fuoco dei roghi non aveva totalmente combusto e strappato dalle ossa bianche? Quella visione non poteva durare a lungo, nell’età che non era più degli eroi, ma dei cantori che raccontavano le storie degli eroi scomparsi. I versi di Omero suonavano nell’orecchio di tutti, quando cominciarono a sciamare per la Grecia i primi rappresentanti di una setta del Libro: gli Orfici. Ora tutto cambiava, se si ascoltavano i discorsi di quei settari. Per ogni atto, anche il più irrisorio, si muoveva la contabilità cosmica, e molti meriti si potevano acquistare recitando parole corrusche, venerando nomi precedenti all’Olimpo. Bussavano alle porte dei ricchi. Si presentavano con strani oggetti – erano libri, un clamore di libri – e sussurravano di avere accesso agli dèi. Se qualcuno si sentiva gravato da una colpa, se un altro voleva far del male a un nemico: con poca spesa, erano pronti ad aiutare. Sacrifici, incantamenti, purificazioni. E finivano per guardare il cliente con occhio maligno: chi si rifiutava andava incontro a terribili sofferenze, laggiù, nel pantano dell’Ade. Gli uomini delle sette, gli uomini del Libro, gli Orfici, con la loro « filza di libri », i Pitagorici, sempre in agguato di certe minime frazioni di suono come « per catturare una voce dal vicinato», furono accolti con sospetto e impazienza. Per gli eredi della Grecia forte, come Platone e Aristofane, avevano qualcosa di irritante e inelegante nella forma. Ma furono loro, alla fine, a vincere, e proprio attraverso Platone. L’esposizione dialogica trasferiva il rintocco dei versi oscuri su una scena di eccessiva chiarezza, increspata dall’ironia. Ma la dottrina filtrava ugualmente: «liberarsi dal cerchio che dà affanno e pesante dolore», sottrarsi all’esistenza come a un fardello e a una colpa, questo dogma fondatore degli Orfici venne trasmesso più dallo stile di Platone che dalle formule degli adepti e finì per saldarsi con l’invito evangelico a sottrarsi al Principe di questo mondo. Soltanto chi ha fuggito il mondo con fùria pagana e cristiana, soltanto chi risiede in uno spicchio dell’anima che proviene da fuori, da laggiù, soltanto chi al mondo non appartiene interamente può usare il mondo e trasformarlo con tanta efficacia e spregiudicatezza. E, con quel finale passaggio all’atto nell’usare il mondo, si giunge all’epoca che non è pagana né cristiana, ma continua ad applicare, senza saperlo, quel doppio movimento del distacco e della fuga, mentre intanto affonda il suo artiglio nella terra e nella polvere lunare [2]”.

È giusto qui ricordare che chi veramente “risiede in uno spicchio dell’anima che viene da fuori” non avrà artigli né per la terra e né per la polvere lunare. D’altronde è lo stesso Calasso a notare come i miti greci siano “composti da azioni che includono in sé il proprio opposto” e Dante – senza artigli – ciò lo dimostra proprio nel più alto e sublime grado, offrendoci del mito orfico una lettura tutta capovolta: non a caso, la contemplazione di Beatrice diviene motivo di salvezza lì dove la contemplazione di Euridice lo è di disfatta. Sì, la fabula orfica può essere letta anche così, come un avvertimento sui rischi che corre chi tenta di riportare alla luce la propria Euridice.

Note

[1] Per valutare tutto il peso di quel sospesi si veda l’articolo dal titolo La seconda morte presente in questo sito.

[2] R. Calasso, La nozze di Cadmo e Armonia, RCS, Milano 2003, pp. 288-289.

[3] Ibidem p. 298.

Orfeo, Euridice e Hermes, replica romana di originale greco del IV sec. a. C..jpg

‘Hermes, Euridice ed Orfeo’. Replica romana di originale greco del IV sec. a. C. Rilievo. Hermes prende in custodia Euridice per riportarla nel mondo infero dopo che Orfeo l’ha guardata.

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