Gioacchino Da Fiore e la filosofia contemporanea

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Un’immagine tratta dal ‘Liber Figurarum’ di Gioacchino da Fiore

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L’intera visione storica di Gioacchino Da Fiore sembra prendere ispirazione dal seguente detto evangelico: “Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di Verità che procede dal Padre: egli mi renderà testimonianza” (Giovanni 15, 26).

Ogni possibile riflessione e speculazione filosofica sulla divisione in tre epoche da parte di Gioacchino può certo essere  significativa, ma allo stesso tempo non ha molto senso considerare l’insegnamento di un contemplativo quale il monaco calabrese alla stregua di una qualsiasi filosofia laica.

Ecco quanto scrive Massimo Iiritano nel suo Gioacchino Da Fiore – attualità di un profeta sconfitto: “Il sentimento della morte di Dio, ‘essenza della religione dei tempi moderni’, è la profezia propria della religione cristiana, la sua più straordinaria e irrinunciabile verità. In Cristo, infatti, è Dio stesso che muore: in una kenosis assoluta della propria trascendenza che ne segna in maniera ineludibile il destino di partecipazione al saeculum. È questo il ‘Venerdì Santo speculativo’ di cui solo la filosofia quale sapere assoluto dell’intero, saprà riconoscere la verità: superandola in un Aufhebung in cui si esprime meglio che in qualsiasi altro luogo quella hybris troppo umana dell’uomo moderno che apre la via alla secolarizzazione compiuta.

È così che lo spazio prefigurato dal terzo status gioachimita viene ad essere occupato progressivamente dal distendersi della modernità, la quale allontana e ignora sempre di più l’idea originaria e irrinunciabile dell’escathon, smarrendone così l’unico significato religioso possibile’”. (p. 92)

Sfortunatamente il pensatore moderno si è da tempo arrogato il diritto e la libertà di parlare delle Scritture senza tenere in considerazione le Scritture stesse. Sarà per questo motivo che trova tanto spazio per speculazioni – e Aufhebung – di ogni tipo. Si legga il Nuovo Testamento, in lungo e in largo, ma di “morte di Dio” propriamente detta non si troverà traccia. Anzi, semmai vi si parla esattamente dell’opposto. La “morte di Dio” è concetto sdoganato da Nietzsche il quale ha trovato terreno ben fertile nella mentalità contemporanea. Non è troppo difficile annoverarlo tra le enormità che l’Apocalisse attribuisce alla bestia del capitolo 13: “Alla bestia fu data una bocca che proferiva parole orgogliose e blasfeme” (Ap. 13, 5).

Inoltre, come tutti i pensatori occidentali, Iiritano paga qui la dimenticanza del mistero del rapporto tra Padre e Figlio dell’Uomo che tanto compiutamente viene espressa nei Vangeli. È la problematica eredità del Dogma Trinitario.

Il Figlio dell’Uomo “entra nella gloria” e lo fa in modo da adempiere le Scritture (Luca 24, 25-27). Che senso ha dire che, così facendo, “Dio muore”?

Se Iiritano dice che la filosofia ha saputo riconoscere la verità del ‘Venerdì Santo speculativo’, non si può fare a meno di mutare quel riconoscere in inventare. Non solo vi sono certezze che nessuna lettura filosofica può dare ma, come ripetiamo ancora una volta, nel Nuovo Testamento nessuno sembra mai intendere o sottintendere che Dio sia morto, pertanto tale ‘Venerdì Santo speculativo’ non è una verità riconosciuta, bensì una verità inventata dalla cosiddetta ‘filosofia’ contemporanea. E una verità inventata non è che una menzogna.

Iiritano, che altrove propone riflessioni e approfondimenti degni di tutto interesse, riprende tutte le tematiche care a Sergio Quinzio. Tra queste spicca sicuramente la priorità della storia vista come un’immanente corsa verso l’escathon e il ridimensionamento, per non dire la negazione, di ogni trascendenza e verità metafisica propriamente detta. Ormai è infatti divenuto una sorta di dogma filosofico quello di tacciare la trascendenza quale un’aggiunta abusiva della cultura greca ai Vangeli.

In ciò vi è qualcosa di difficile comprensione.

Al di là di ogni possibile platonismo, perché mai nei Vangeli si parla di un Padre dei Cieli che fa piovere sui giusti come sugli ingiusti? perché mai vi si parla di un Regno dei Cieli e non di un regno privo di qualsiasi tensione alla  purificazione e all’innalzamento, se in essi non vi è spazio per alcuna trascendenza?

A queste domande – sulle quali bisogna meditare – purtroppo in Quinzio, pensatore preparato e profondo, non ho mai trovato risposta.

Certo, è un linguaggio, quello trascendente, di difficile assimilazione per la sensibilità contemporanea, ma deve pur esserci un motivo se Dante ha consacrato la sua Commedia proprio allo sposalizio tra la simbologia spaziale e quella temporale. Cos’altro è infatti il suo ascendere verso il corteo apocalittico delle bianche stole (Paradiso 30, 129)  se non un viaggio verso l’alto e al contempo un viaggio in avanti, verso l’istante apocalittico?

In relazione a tutto ciò, bisognerebbe anche chiedersi quanto tutte queste argomentazioni della filosofia contemporanea, che per Iiritano è addirittura sapere assoluto dell’intero, abbiano a che vedere con le opere dell’abate di Calabria.

Su questo nostro tempo – o quanto meno sul suo – Gioacchino si esprime nei seguenti termini: “Le opere del secondo stato sono più spirituali delle opere del primo, ma meno spirituali di quelle del terzo e, quindi, nella prima intelligenza la lettera si oltrepassa solo in parte, non del tutto, mentre nella seconda [nell’intelligenza spirituale, nda] la lettera viene superata integralmente e perfettamente” (Sull’Apocalisse, VIII). Ora,  chiedo, la spiritualizzazione dell’intelligenza a cui si riferisce Gioacchino non si riferisce forse ad un innalzamento? Non si sta forse, l’abate calabrese, esprimendo in termini trascendenti o, se si preferisce, propriamente spirituali?

Ecco ciò che molti pensatori moderni sembrano non intuire: la promessa apocalittica non può essere spiegata come un concetto immanente, secolare, in quanto tra essa e noi vi è un mistero che può essere gradualmente rivelato solo a coloro che se ne rendono degni. Proprio a ciò Gioacchino sembra riferirsi quando afferma: «(…) ora è giunto il tempo – il tempo preciso – perché siano rivelati i misteri nascosti di questo libro, il tempo in cui non è permesso a nessuno di gonfiarsi d’orgoglio per la conoscenza, ma vale la pena, piuttosto, di volgere la mente al naufragio che ci incombe». (Sull’Apocalisse, VIII).

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Gioacchino da Fiore in un’incisione del XVI secolo